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Francesca Berardi e Lucio Schiavon presentano

“L’invenzione dei tuoi occhi”

Venerdì 13 dicembre 2024 alle 18.30

la storia vera di Walter e del viaggio che dal Salvador lo ha portato a New York.

A New York, Walter costruisce occhiali di cartone speciali: un filtro che lo aiuta a isolarsi e a vedere le giornate sempre diverse. Francesca sta lavorando a un progetto sui canner, le persone che raccolgono lattine per strada in cambio di pochi centesimi. Si incontrano al centro di smistamento dove Walter lavora. Questo libro è anche, e forse soprattutto, la storia della loro amicizia.

Per conoscere meglio gli autori e il progetto che ha portato a questo libro, riportiamo qui di seguito un’intervista tratta dal sito dell’editore TERRE DI MEZZO.

Ciao Francesca, per chi ancora non ti conosce: ti va di presentarti?

Sono nata e cresciuta a Torino, e ho vissuto diversi anni negli Stati Uniti, tra il 2011 e il 2018. Sono stata di base a New York, ma ho trascorso anche un lungo periodo a Detroit, città che mi ha dato la chiave per capire meglio alcune delle questioni sociali più radicate e irrisolte in America. 
Lavoro come giornalista, e nel tempo ho capito che in generale non mi interessa inseguire le notizie, quanto piuttosto trovare e raccontare storie. Negli ultimi anni mi sono dedicata in particolare all’audio, e dal 2022 lavoro come autrice di podcast per Chora Media. Sono anche la mamma di un bambino italoportoghese che si chiama Carlo, con il quale amo molto trascorrere il tempo. 

Il tuo libro “L’invenzione dei tuoi occhi” racconta la storia di Walter, che a New York conta e smista bottiglie e lattine raccolte per strada. Come è avvenuto il tuo primo incontro con la realtà dei canner newyorkesi?

Non ricordo quando è stato il primo incontro, i canner a New York sono ovunque. Li ho notati subito. Soprattutto perché quando sono arrivata a New York, sono rimasta scioccata dall’abuso di contenitori usa e getta. Bicchieri, lattine, bottigliette…ero molto colpita che una città come quella, così “avanti” per tanti aspetti, sul fronte della produzione dei rifiuti – e a quel tempo anche dello smaltimento – fosse così indietro. E poi vedevo i canner muoversi ai margini dei marciapiedi, spingendo i loro carrelli, silenziosi, meticolosi, stanchi, a caccia di tutti quei contenitori che gli abitanti della metropoli verticale, la città che corre, avevano gettato di fretta, dopo un rapido uso. Per loro quei contenitori erano il contrario di un rifiuto, erano un valore. E questo mi ha fatto pensare molto a un libro che amo tantissimo, “Le città invisibili” di Italo Calvino, alle città che si specchiano. New York, verticale, devota al consumo, veloce, vive anche del riflesso della città orizzontale, la città dei canner appunto. Per questo quando nel 2015 ho avuto l’enorme fortuna di ottenere una borsa per frequentare un MA in politica alla Journalism School di Columbia University, ho cercato da subito un’occasione per occuparmi anche di questo. E quando mi è stato assegnato come compito a casa un articolo a piacere, ho proposto di farlo sui canner. Così ho smesso di limitarmi a osservare, e sono andata a conoscerli. Ho individuato un redemption center, uno dei centri di raccolta dove i canner portano le loro lattine per scambiarle poi per 5 centesimi a pezzo, e ho avuto la fortuna di capitare in quello giusto. Si chiama Sure We Can, si trova a Brooklyn, ed è l’unico di natura non profit, gestito da una donna che è una forza della natura, una suora di strada. Lì ho trovato tutte le storie, ma lì è iniziata poi anche una mia storia perché ci sono tornata più volte, fino a propormi come volontaria e quindi a frequentare il centro regolarmente. Un anno in particolare ho potuto farlo quasi quotidianamente grazie ad un grant del Brown Institute for Media Innovation, una collaborazione tra Columbia e Stanford, che mi ha di fatto stipendiata per permettermi di raccogliere dati su quell’economia cosiddetta informale e soprattutto le storie delle persone, i canner appunto. Sul fronte dei dati è stato un lavoro interessante perché i dati dovevo produrli io, l’ho fatto manualmente. E sul fronte delle storie è stata semplicemente la cosa più bella e sorprendente che abbia mai fatto. 

La storia di Walter inizia una mattina di giugno del 2008 quando, partito dalla sua casa nella periferia di San Salvador, si impone di camminare ogni giorno dall’alba al tramonto fino ad attraversare il confine con gli Stati Uniti. A New York eravate entrambi molto lontani dai luoghi in cui siete nati e cresciuti, questo ha in qualche modo contribuito ad unirvi?

Questa è una bella domanda, non lo so. Davvero veniamo da pianeti diversi, ma a New York è una cosa abbastanza comune. Io credo che ad unirci siano invece state le cose che abbiamo in comune. C’era qualcosa in lui che mi parlava di me, quella follia che in tanti vedevano nei suoi bizzarri occhiali di cartone io la sentivo famigliare, mi pareva di conoscerla in qualche modo. Invece di respingermi mi attraeva. Ero estasiata dalla capacità che aveva avuto di inventare dispositivi per la sua sopravvivenza. Mentre non so onestamente perché lui trascorresse il suo tempo con me, non gli ho mai chiesto cosa lo unisse a me. Ma conoscendolo immagino che gli piacesse essere ascoltato. Lui quando parlava non ti guardava quasi mai negli occhi. Ma aveva cura del suo interlocutore, ponderava le parole, si vedeva che metteva davvero in moto il cervello e il cuore. 

Cosa ha significato per te scrivere questo libro e rendere accessibile a tutti la storia di Walter?

Scrivere questo libro è stato per me un regalo, un’occasione per celebrare un incontro speciale. E anche un modo per continuare a dialogare con Walter dopo la sua morte improvvisa. Tante volte mi chiedo cosa direbbe lui di questo libro. E questa domanda me la sono fatta anche in fase di scrittura, come se avessi dovuto poi sottoporre il testo alla sua revisione. E qui mi collego alla seconda parte della domanda. Perché pubblicare una storia che lo riguarda mi porta a domandarmi costantemente: ma lui sarebbe contento? La risposta che mi do è positiva, altrimenti non saremmo qui, sia perché mentre scrivevo ho sempre dialogato con il ricordo di lui e le sue voci registrate, sia perché in realtà la sua storia l’avevo già in parte raccontata quando era ancora in vita. Era una delle puntate del mio primo radio documentario New York Orizzontale, che ho realizzato nel 2018 per il programma Tre Soldi di Radio 3. In quel caso avevamo cambiato il nome, avevamo scelto Pedro, ma lui mi aveva detto che avrei potuto usare anche Walter. E quando glielo avevo fatto ascoltare con il testo tradotto sottomano gli era piaciuto. Questo mi ha dato molta fiducia. Poi ovviamente raccontando questa storia spero di avvicinare i lettori allo sforzo fisico e mentale che affrontano le persone che migrano. Spero anche che si rendano conto che anche dietro le persone più marginalizzate – anzi soprattutto dietro di loro – ci sono storie che possono davvero aiutarci a cogliere pezzi di umanità sommersi dal contesto in cui viviamo. E poi spero che ispiri tutti noi a costruire lenti che siano adatte e utili alla sopravvivenza anche nei momenti più duri.

Come nasce la collaborazione con Lucio Schiavon che ha realizzato le illustrazioni per “L’invenzione dei tuoi occhi”?

La collaborazione con Lucio è nata in un modo bizzarro per me, ovvero su Instagram. Era il 2019, inverno. Non ci conoscevano, e Lucio mi ha scritto un messaggio per dirmi che aveva passato la serata ad ascoltare il radio documentario New York Orizzontale e che gli sarebbe piaciuto illustrare i miei racconti.  Io sono andata a vedere il suo profilo e devo dire mi sono sentita onorata perchè i suoi lavori mi piacevano molto. Ci siamo così sentiti al telefono, e io gli ho detto che quell’estate sarei tornata a New York, e che se voleva ci saremmo potuti incontrare lì. Lui mi ha detto che a New York non ci era mai stato (anche se aveva già pubblicato un libro su New York…un libro bellissimo, e questa è una delle cose meravigliose di Lucio: viaggia senza bisogno di muoversi!). Insomma, a New York quell’estate è venuto anche lui. Una sera l’ho portato ad una festa con un gruppo di canner, Walter non c’era ma c’erano altri di cui aveva sentito le storie. E una domenica pomeriggio è venuto con me da Walter. Ricordo che poi Lucio ha realizzato un paio di occhiali per lui, che gli ha regalato, e che sono tra le cose che Walter conservava tra gli “effetti personali” e che dopo la sua morte sono stati consegnati a me. Poi in realtà Lucio ed io siamo diventati amici, e per anni ci siamo detti che sarebbe stato bello dedicare un libro a Walter. Ci voleva Terre di Mezzo per realizzare questo desiderio!