Le foto di me da bambina paffutella testimoniano quanto io abbia sempre amato mangiare, ma in realtà è stato solo da dopo la maturità che mi sono davvero interessata al cibo.
Tutto è iniziato con un lavoro estivo da cameriera in un locale di Rialto, un posto speciale. Noi dipendenti mangiavamo insieme ai titolari dopo il servizio, ordinando à la carte e assaggiando quanti più vini in mescita possibile, in modo da poterli conoscere, apprezzare e proporli meglio. A fine stagione era tradizione fare una gita presso i vari produttori, per incontrare le persone e le storie che allietavano i nostri palati durante il lavoro.
Il cibo fungeva da legante magico, offrendoci momenti di condivisione, avvicinamento e scoperta. Il locale cambiò gestione qualche anno dopo, ma grazie a quell’esperienza il mio percorso personale con il cibo non ha smesso di evolversi, portandomi a modificare in modi inaspettati le mie scelte alimentari (e non solo).
Recentemente, leggendo “Cotto” di Michael Pollan (2013), sono stata colpita da una sua riflessione presente nell’introduzione, ossia che proprio ora che siamo sommersi da programmi di cucina, libri di ricette e fotografie di piatti invitanti sui media, passiamo sempre meno tempo ai fornelli e siamo sempre più distanti dai processi di produzione. Per spiegarsi quello che definisce come paradosso del cibo, l’autore intraprende un viaggio culinario attraverso i quattro elementi –fuoco, acqua, aria e terra- e giunge a formulare alcune teorie, fra cui quella (forse in apparenza scontata) che l’uomo ha un legame emozionale con il cibo, che lo riporta al contempo al rapporto profondo con natura, cultura e socialità. Guardare altri cucinare, non è cosa nuova per noi, anzi, spesso ci riporta a piacevoli ricordi d’infanzia e a momenti di condivisione. L’atto di mangiare –di per sé esigenza primaria- assume connotati sociali ed emotivi e ci aiuta a comprendere il successo di questo fenomeno. Inoltre, considerando che pochi di noi hanno il tempo e gli ingredienti necessari per replicare i piatti gourmet che vediamo sullo schermo, potremmo affermare che in qualche modo siamo diventati consumatori non tanto del buon cibo, quanto di una sua buona rappresentazione.
Quello che mettiamo in tavola ha un impatto ambientale, economico e sociale di primaria importanza, e se è vero che tutto è politica, il cibo è senza dubbio un atto politico di rilievo. Mai come nell’ultimo secolo l’industria alimentare ha plasmato territori, gusti e abitudini (onde la nostra cultura) in modo così drastico, regalandoci talvolta l’illusione di farci guadagnare tempo per attività più importanti rispetto al cucinare, pratica relegata alle casalinghe. Negli Stati Uniti, dopo la seconda guerra mondiale, fu fatta una pesante campagna pubblicitaria giocata proprio su questo, che contribuì notevolmente a rendere desiderabili prodotti liofilizzati, pasti già pronti e insaporitori a base di glutammato chimico e con una vita da scaffale sempre più lunga.
Negli stessi anni, in Italia nasceva il Partito Nettista, meglio noto come Partito della Bistecca, fondato nel 1951 da Corrado Tedeschi. L’intento era ironico e nel programma si proponeva, tra le altre cose, una bistecca da 450 gr al giorno per ogni cittadino. Un alimento pregiato come la bistecca era tradizionalmente riservato a pochi o ad occasioni speciali, mentre ora veniva distribuito quasi come gadget, in questo modo parodiando il fatto che il consumo di questo genere (e taglio particolare) di carne fosse da potersi considerare di uso quotidiano.
Dalla metà degli anni ’40, varie aree del mondo sono state interessate dalla cosiddetta Rivoluzione Verde, che si proponeva di ridurre le carestie e la fame attraverso una maggiorata produzione alimentare ottenuta tramite fertilizzanti chimici, fitofarmaci e così via. Questa pseudo rivoluzione ha iniziato a far vedere i suoi limiti molto presto: infatti, ad un iniziale aumento di cibo a disposizione delle popolazioni, si è rapidamente contrapposto l’impoverimento dei terreni, l’inquinamento delle falde acquifere e la maggiore dipendenza economica dei territori interessati a multinazionali e relativi prodotti chimici, di fatto aumentando le carestie e allargando ulteriormente la distanza tra ricchi e poveri. I cibi ottenuti tramite processi intensivi sono nel migliore dei casi poveri a livello nutrizionale, nel peggiore, dannosi alla salute (basti pensare all’effetto del glutammato sui neuroni).
Dovremmo poi considerare le mode alimentari. Abbiamo smesso di parlare di cibo, sostituendo i nomi di ortaggi, carni, cereali, e quant’altro, con termini tecnici come carboidrati, grassi, proteine, zuccheri… ognuno dei quali, in decenni diversi, diventa il nemico numero uno della linea (pensiamo ad esempio alle diete che escludono totalmente carboidrati o cosiddette fat-free, che a lungo andare rischiano di essere parecchio pericolose per la nostra salute). Anche chi vorrebbe vivere in modo più green spesso si ritrova vittima del marketing, che porta ad idealizzare pochi cibi ben definiti, come nel caso del salmone (non importa che sia d’allevamento e arricchito da ormoni) o all’avocado (il cui business in certe zone del mondo è in mano a cartelli pressoché uguali a quelli delle droghe), dimenticandosi totalmente della biodiversità e dei semplici consigli della nonna come ‘mangiare l’arcobaleno’ o ‘mangia un po’ di tutto e varia più che puoi’.
Tutto questo mi fa arrabbiare moltissimo, perché ritengo che tutti dovremmo poter accedere al cibo sano e all’acqua potabile. Purtroppo i piccoli produttori virtuosi non hanno modo di competere sul mercato con la grande distribuzione, di conseguenza il mangiare sano oggi sta diventando un privilegio per pochi. Non so né se né come si possa sconfiggere questo fenomeno, ma credo che in quanto consumatori possiamo almeno indirizzare l’industria verso certe scelte piuttosto che altre, e che dovremmo tutti –me compresa- accettare il fatto che è necessario ripensare il nostro stile di vita in generale (dal cibo ai viaggi, passando per i consumi). Ahimè, siamo tutti parte di un sistema e siamo tutti esseri inquinanti, ma se ognuno di noi facesse delle piccole rinunce, insieme potremmo davvero fare grandi passi.
Nel 2018 è uscito per Slow Food Editore “Con tutti i miei sensi: storia di una cuoca rivoluzionaria”, un’autobiografia della cuoca americana Alice Waters, artefice dell’orto di Michelle Obama e ispiratrice delle politiche alimentari di suo marito (qui il link all’intervista pubblicata su Vanity Fair). Da giovane la Waters faceva parte del Free Speech Movement, poi nel 1971 apre a Berkeley (California) il ristorante Chez Panisse, dove ha sempre proposto cibi biologici provenienti da piccoli produttori virtuosi, per poter comunicare e condividere i suoi valori con un pubblico più vasto. L’aggettivo rivoluzionaria sta ad indicare quanto con le nostre scelte possiamo contribuire ad un cambiamento, in modo pacifico e non violento. Quello che promuove la Waters è la consapevolezza delle nostre scelte e l’importanza di una buona educazione alimentare, da sviluppare fin da piccoli. Per un mondo più equo dove i cicli naturali vengano rispettati, di cui noi umani siamo solo un anello.
È proprio sulla consapevolezza che vorrei soffermarmi, perché qualsiasi scelta va bene purché noi ne conosciamo le conseguenze. Nel mio caso, non avendo studiato né agraria, né scienze ambientali o della nutrizione, non mi sento di fare un elenco a punti con consigli di pratiche quotidiane per migliorare il mondo, vorrei però condividere con voi il mio sentire verso l’ambiente, che vedo modificarsi in modi discutibili. Una proposta fattibile è quella di partire dagli ingredienti, scegliendo ove possibile di acquistare locale almeno i prodotti freschi, dando la priorità a piccole aziende che permettono il mantenimento della biodiversità e rispettano i cicli naturali. Fortunatamente si sono sviluppate reti di GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) e farmers market che, mettendo in contatto consumatori e produttori bypassando vari intermediari, rendono accessibile anche a livello di prezzi prodotti stagionali genuini, quindi basta informarsi per diventare parte del cambiamento. Non mi interessa parlare di diete o trend alimentari, che siate vegani o carnivori a mio avviso non ha importanza, ciò che conta è sapere cosa mettiamo in tavola, da dove viene, come viene fatto e se la terra e gli animali vengono rispettati. Mi rendo conto che a dire certe cose spesso si passa per noiosi e pesanti, ma in questo caso il gioco di candele ne vale mille, perché stiamo parlando della salute nostra, dei nostri figli e del nostro pianeta, in poche parole…del nostro futuro.
Concludo dicendo che ho scritto questo post per un luogo per me diventato del cuore: la libreria bistrot sullaluna. Qui libri, persone e buon cibo si incontrano quotidianamente, creando positive sinergie e occasioni di scoperta e conoscenza. Durante l’anno vengono organizzati diversi workshop rivolti a bambini. I proprietari –Francesca e Rodolfo- sono vignaioli e producono sulle colline di Refrontolo un prosecco, il Lunatico Docg, che va oltre al bio e segue i cicli della luna, tutelando il paesaggio e senza l’impiego di fertilizzanti chimici. Ci sarebbe molto da dire sulle colpe del marketing e la diffusione del prosecco nel mondo, reo di aver modificato il paesaggio veneto, ma questa è un’altra storia…
Vi lascio quindi godendomi un piacevole spuntino e con una lista non esaustiva di libri sul tema, sia per grandi che per piccini, che potete trovare in libreria.
Alice Waters, L’arte del cibo semplice, Guido Tommasi
Michel Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, In difesa del cibo, Cotto, Adelphi
Gaetan Dorémus Una ricetta miracolosa Terre di Mezzo
Gerda Muller, La vita segreta dell’orto, La festa dei frutti, Babalibri
Emanuela Bussolati, Federica Buglioni, Storie in frigorifero, Editoriale Scienza
Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani, Al supermercato degli animali, Topipittori
Leo Lionni, Federico, Babalibri
Felicita Sala, Una festa in via dei giardini con le ricette del mondo, ElectaKids
Dunque, arrivederci e … Buon cibo a tutti!